Elezioni amministrative – Frosinone, 6 e 7 maggio 2012
“PER
UNA CITTA’ EQUA, SOLIDALE ED ECO-COMPATIBILE.
Idee per il governo locale”
LE TRASFORMAZIONI
STRUTTURALI DELLA CITTA’
Ormai da più di una
ventina d’anni Frosinone è interessata da processi che ne hanno mutato
non poco le caratteristiche.
Molto si potrebbe dire di
queste modificazioni. Esse sono state interpretate in molti modi, di
volta in volta mettendo in risalto gli elementi di continuità
con i processi di urbanizzazione precedenti (un’ulteriore estensione
dei confini urbani) o quelli di discontinuità, interpretati
come vere e proprie rotture con i tradizionali processi di
urbanizzazione.
Nei processi di
sostituzione di attività si è modificata in modo rilevante la
composizione sociale degli abitanti. La ristrutturazione delle
grandi imprese industriali ha alimentato la disoccupazione, per altri
versi si è diffuso un precariato legato al decentramento produttivo e
alla terziarizzazione ed, infine, si sono diffuse nuove professioni,
in parte legate ad attività autonome eterodirette, in parte di
eccellenza, in concomitanza con la crescita delle funzioni direzionali
e “high tech”. Nel frattempo, si è assistito all’esodo soprattutto di
fasce a reddito medio che si sono spesso ricollocate nelle aree
suburbane.
La città è anche
mutata fisicamente.
Il processo di ricambio della base economica non ha lasciato indenne
lo spazio urbano. Grandi spazi vuoti si sono aperti nelle città per
effetto della dismissione di attività produttive. I nuovi processi di
ristrutturazione a livello centrale hanno contribuito ad esaltare la
rendita urbana stimolando la realizzazione di opere e abitazioni
destinate a ceti socialmente agiati. Le aree non interessate da questi
processi di valorizzazione sono diventati spesso i nuovi contenitori
di fasce marginali, a partire dagli immigrati extracomunitari, e le
periferie hanno visto accentuare il loro degrado.
Frosinone è stata
attraversata da dinamiche di tipo competitivo
che hanno dato vita a percorsi di sviluppo differenziati, spesso con
il potenziamento di alcune funzioni terziarie, anche se non
particolarmente innovative. Nello stesso tempo anche se non si è visto
crescere il peso demografico nel corso di questi anni, si è dato vita
a strutture territoriali reticolari, spesso a ridosso delle aree
urbane, giovandosi di un potenziale economico diffuso, spesso legato
ad attività manifatturiere ristrutturate che non hanno determinato
alcun aumento dell’occupazione.
IL RUOLO DEI GOVERNI
LOCALI
In questo contesto, il
ruolo del governo locale non è stato irrilevante. Tuttavia, qui è
d’obbligo distinguere fra le trasformazioni che hanno investito le
funzioni degli enti locali e le politiche da questi attivate. I
due aspetti sono ovviamente correlati ma non esiste un’automaticità
delle scelte a seguito della trasformazione delle funzioni. Questa
premessa è indispensabile nel momento in cui ci avviciniamo ad una
scadenza amministrativa così importante, dove decisiva sarà la
connotazione dei programmi.
In generale, se il compito
delle istituzioni pubbliche dovrebbe essere quello di attutire gli
elementi di contraddizione sociale derivanti dalle trasformazioni
economiche, dobbiamo riconoscere come la direzione assunta dalle
politiche dell’ente locale nel corso di questi anni sia stata del
tutto insoddisfacente. L’ente locale ha visto indebolire il loro
ruolo diventando, per molti versi, impotenti di fronte alle
trasformazioni in atto.
Si è molto discusso in
questi anni degli effetti della politica di riduzione della spesa
pubblica.
Spesso, però, non è emersa con necessaria evidenza il danno che ciò ha
prodotto (uno dei settori più colpiti da queste scelte di politica
economica). Il primo effetto è stato quello di una significativa
riduzione dei trasferimenti, in modo particolare ai comuni.
L’applicazione del patto di stabilità interno ha poi implicato:
l’introduzione dell’addizionale Irpef, la limitazioni delle
possibilità di indebitamento, l’alienazione di beni pubblici, la
sollecitazione ad agire sulle tariffe dei servizi.
Le conseguenze di queste
scelte sono stati assai pesanti. Da un lato, si è ridotta la
capacità di investimento dell’ente pubblico, dall’altro, essendo
cresciuta l’imposizione fiscale locale ed essendosi determinata una
lievitazione delle tariffe, si è accentuato il disagio delle fasce a
reddito basso.
In questo contesto, vuoi
per effetto di ben determinate scelte politiche nazionali, vuoi come
reazione ai vincoli di spesa, vi è stato un pesante
ridimensionamento del ruolo dei servizi pubblici locali. Ciò ha
determinato nel campo dei servizi a rete, una forte propensione alla
trasformazione o alla cessione del servizio ai privati. Inoltre, è
continuata la cessione a terzi della gestione dei servizi
socio-assistenziali, con ciò che questo ha comportato, spesso, in
termini di calo della qualità del servizio e di deregolamentazione del
lavoro.
Analoga involuzione si
è avuta sul piano delle politiche territoriali. Anche qui, sia per
i vincoli di spesa che hanno limitato la possibilità di investimenti
diretti per le acquisizione delle aree o per la realizzazione delle
opere pubbliche, sia per le indubbie difficoltà derivanti dai
rilevanti processi di trasformazione dello spazio urbano, si è
assistito ad un mutamento degli orientamenti dell’azione politica. Si
è così andato delegando la realizzazione di opere pubbliche ai
privati, si è via via allentata la funzione prescrittiva dei piani per
favorire processi di negoziazione coi soggetti privati, si è puntato
sulla valorizzazione urbanistica di alcune aree di pregio a discapito
delle aree periferiche o degradate.
Queste scelte sul piano
urbanistico sono strettamente intrecciate con la filosofia che ha
ispirato l’azione pubblica per ciò che riguarda le politiche di
sviluppo locale. In virtù della necessità di creare le migliori
condizioni per lo sviluppo di nuove attività imprenditoriali, si sono
diffuse pratiche concertative sul piano locale, che spesso hanno
ridotto ulteriormente il grado di tutela dei lavoratori, i vuoti
urbani sono stati riempiti attraverso operazioni speculative, le
scelte infrastrutturali (ivi comprese quelle per la mobilità) si sono
uniformate alle esigenze delle nuove attività produttive. In generale,
la città, riscoperta come merce, è stata oggetto di politiche di
marketing.
LA CRISI DELLA CITTA’
SOLIDALE
Le dinamiche socio
economiche e il loro intreccio inquadrano la dimensione delle attuali
problematiche urbane. La città inclusiva e solidale, che per
una lunga fase ha costituito il riferimento di una cultura
amministrativa progressista è oggi in crisi per effetto, da un lato,
di corpose trasformazioni socio-economiche e, dall’altro, di una
deriva della cultura e delle pratiche politico-amministrative. Gli
elementi salienti di tali crisi possono essere così descritti:
-
La città è oggi più
squilibrata socialmente.
Da un lato si assiste ad una polarizzazione nel reddito che in larga
misura è dovuta alle trasformazioni dei mercati del lavoro urbano e
alle scelte amministrative e politiche compiute. Cresce dunque
l’iniquità sociale, ma cresce anche la frammentazione sociale.
I più significativi aggregati di classe tendono ad indebolirsi (per
effetto della deindustrializzazione e dell’esodo urbano), si dilata
l’area del precariato e della sottooccupazione, crescono figure di
lavoratori autonomi eterodiretti.
-
La città è più
sperequata spazialmente.
Ciò significa che il diritto alla città tende a venir meno per
effetto di una crescente appropriazione privata della stessa. Il
fenomeno più appariscente è da sempre rappresentata, in tal senso,
dalla esistente segregazione spaziale che si manifesta col
giustapporsi di zone socialmente differenziate. In questo processo
la periferia, tradizionale luogo del disagio sociale, si dilata
anche nelle aree centrale, nei luoghi degradati non soggetti a
riqualificazione. Nel frattempo, altre aree si propongono come
centri direzionali, cui si possano affiancare aree residenziali di
pregio, provocando una valorizzazione della rendita urbana
che a sua volta contribuisce a selezionare socialmente i residenti.
-
La città è meno
solidale.
L’indebolirsi della funzione redistributrice della politica
locale, il ridimensionamento del sistema dei servizi sociali, il
venir meno della certezza di diritti universali, erodono quel
tessuto connettivo di protezione sociale che costituiva il
fondamento della città inclusiva. Non solo, ma l’atomizzazione
sociale prodotta dal venir meno di significative aggregazioni socio
politiche, in presenza di rapide modifiche della struttura di classe
e di processi di degrado sociale, alimenta ripiegamenti
individualistici, atteggiamenti aggressivi e, più in generale,
diffidenza verso le pratiche inclusive. La questione della sicurezza
emerge qui in tutta la sua portata.
-
La città è
ambientalmente meno vivibile.
Alle tradizionali
contraddizioni sul piano ambientale si aggiungono gli effetti
negativi derivanti dall’allargamento dell’area di gravitazione
urbana, con ciò che questo comporta in termini di peggioramento
della mobilità, dalle condizioni di degrado che si determinano in
alcune aree della città per l’assenza di risorse pubbliche e per
l’uso squilibrato di quelle disponibili, dal permanere e
dall’estendersi dei fenomeni di inquinamento.
-
Infine,
la città è meno democratica. Lo è da diversi punti di vista. In
primo luogo, per quanto riguarda il funzionamento delle istituzioni
della democrazia rappresentativa. L’elezione diretta del sindaco ha
comportato l’affermazione di un potere monocratico, delegittimando
il ruolo delle assemblee elettive e, più in generale, sferrando un
colpo mortale al ruolo dei partiti. Non solo, man mano che l’enfasi
è stata posta sulle virtù del sindaco sempre di più si è accentuato
il fenomeno della delega. In questo contesto non va assolutamente
dimenticato un altro aspetto sostanziale. Mi riferisco alla
progressiva cessione di funzioni pubbliche ai privati che ha
progressivamente indebolito il ruolo delle istituzioni democratiche.
CRISI DELLA POLITICA E
PREMESSE PER UNA SVOLTA
Se ho voluto mettere così
in risalto le componenti della crisi urbana è perché ogni ragionamento
sulle prospettive non può oggi che partire dalla consapevolezza dei
guasti che si sono prodotti a livello locale. Da questo punto di vista
le stesse dinamiche politiche che si sono verificate negli ultimi anni
a livello amministrativo trovino una spiegazione (non marginale) in
questi processi prodottisi a livello locale. La crisi sociale
della città è così divenuta crisi politica.
Dietro la
personalizzazione della politica il più delle volte si è cela una
visione omologata delle politiche locali, in cui le differenze fra
destra e sinistra sono progressivamente sfumate. Né ci pare
secondario che gli elementi caratterizzanti la stagione del “buon
governo” siano stati spesso superati da pratiche privatiste che hanno
indebolito la coesione sociale.
Ma queste
responsabilità politiche sono ancora maggiori a fronte dei nuovi
fenomeni di scomposizione sociale che si sono prodotti, perché in
assenza di un orientamento redistributivo/solidaristico il
disagio sociale si è accentuato. Non solo, tale disagio si è tradotto
in conflitto etnico, in pratica della delega e rapporto clientelare,
nel ripiegamento su logiche individualistiche.
La rinuncia ad intervenire
sui processi in atto per contrastare la devastazione sociale, ha
prodotto non solo disaffezione nelle fasce tradizionalmente collocate
su posizioni progressiste, ma ha anche consentito l’affermarsi di
un’egemonia moderata. Il micro-localismo, il
conflitto etnico, la diffidenza per l’istituzione pubblica e,
all’opposto, l’esaltazione della personalizzazione in politica
costituiscono gli ingredienti di un disegno populista che punta a
favorire la formazione di aggregati interclassisti, a-conflittuali e
spoliticizzati, base di consenso per una gestione della città
asservita ai poteri forti e proiettata nella dimensione di una
competizione fra territori.
Contrastare questa
prospettiva e riaprire una stagione progressista nelle città non è
facile. Le devastazioni, anche culturali che si sono prodotte nel
corso di questi anni rendono difficile la prospettazione di una
proposta organicamente alternativa. In particolare, è evidente,
anche in ambienti progressisti, la penetrazione di una cultura di
ispirazione liberista. Ciò è chiaramente visibile nel
momento in cui ci si richiama alla necessità di ridurre la funzione
pubblica e di valorizzare il protagonismo dei soggetti economici, ma è
altresì evidente in alcune posizioni che finiscono (in larga misura)
col celebrare una sorta di riscossa della società civile, in antitesi
a quella politica, attraverso la riappropriazione privata di funzioni
pubbliche.
La nostra posizione è
diversa. Noi consideriamo il recupero della “dimensione
pubblica” un elemento essenziale per una proposta per le città
capace di riaggregare un blocco sociale e politico alternativo. Questa
scelta, naturalmente, non presuppone la riproposizione “sic et
simpliciter” delle tradizionali pratiche del buon governo, anche se
rispetto alla vulgata liberista che tanto danno ha fatto, alcuni
capisaldi di quella impostazione restano tuttora validi. Da questo
punto di vista, è evidente che il mutamento del paradigma economico,
che ha così significativamente interessato le città determinando nuovi
squilibri, si è affermato non senza contraddizioni. Da qui si deve
ripartire.
L’OBIETTIVO DELLA
REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO
Una svolta nelle
politiche urbane implica, in primo luogo, un disegno sociale e cioè
l’individuazione dei soggetti sociali prioritari, dei loro bisogni e
del percorso da attivare per dare risposta a tali bisogni. Di
fronte ai processi di frammentazione in atto l’elemento significativo
è rappresentato dalla crescente polarizzazione sociale. La
polarizzazione sociale si esprime nei nuovi mercati del lavoro urbani,
non solo e non tanto sulla base delle modalità del rapporto con il
lavoro (disoccupati/occupati – lavoro dipendente/lavoro autonomo)
quanto, sempre di più, attraverso gli squilibri di reddito. La
condizione di reddito è l’elemento unificante. Essa consente di
riconoscere nelle città un aggregato potenziale che passando
attraverso il lavoro dipendente (pubblico e privato) a basso reddito
si estende ai pensionati, ai giovani in cerca di occupazione, al
settore del lavoro autonomo eterodiretto, per finire ai nuovi lavori
precari (e servili) dove rilevante è la presenza di lavoratori
extra-comunitari.
Si tratta di un’area, in
verità, disomogenea, in molti casi priva di una rappresentanza
politico/sindacale. E, tuttavia, questo aggregato sociale vive un
disagio reale. Il primo obiettivo da porsi, quindi, per riaggregare
tali fasce è l’assunzione di una prospettiva di redistribuzione
del reddito. Per molti versi si tratta di recuperare
l’ispirazione delle esperienze più significative della cultura
amministrativa riformista entrata in crisi nel corso degli ultimi
anni. Favorire un processo significativo di redistribuzione del
reddito nelle città significa agire, da un lato, sul sistema
impositivo e, dall’altro, sulle tariffe.
Il criterio essenziale è
l’assunzione della effettiva progressività delle imposte.
Ciò significa, in primo luogo, agire sul sistema delle imposte
utilizzando tutte le possibilità per ridurre al minimo la pressione
sui redditi più bassi. Ciò vale, a titolo d’esempio, per l’ICI, oltre
che per quanto riguarda l’applicazione dell’aliquota, anche per quanto
riguarda le possibili detrazioni. I nostri orientamenti sono noti;
puntano a ridurre al minimo l’imposta per i proprietari di una sola
abitazione a basso reddito. Analogamente, vanno rimodulate le tariffe
dei servizi (compresi quelli a domanda individuali).
In quest’ottica, riteniamo
che sempre di più si debba garantire a una fascia di utenti
sfavoriti la gratuità dell’accesso a determinati servizi. Ciò può
valere per gli anziani, per fasce particolarmente sfavorite, per
soggetti non percettori di reddito (si pensi ai giovani). E’ naturale
che il problema del reddito va considerato in tutte le sue
sfaccettature. E’, per esempio, evidente che una politica
significativa in termini redistributivi implicherebbe la dilatazione
dell’offerta di servizi consentendo in tal modo di ridurre i costi
sociali, oggi sostenuti dai singoli e dalle famiglie, attraverso
l’offerta di prestazioni pubbliche.
Il punto essenziale,
tuttavia, è che questo orientamento, facendo lievitare la spesa
pubblica, entra in collisione con le politiche restrittive adottate in
questi anni. Il problema quindi si amplia alle scelte di carattere
nazionale e comporta l’apertura di una battaglia politica generale.
Gli assi di tale battaglia sono presto detti:
-
Innanzi tutto, il
sostegno agli enti locali attraverso i trasferimenti deve essere
rilanciato, né è pensabile che esso possa essere sostituito da
pratiche di federalismo fiscale, il cui effetto se trovassero
un’applicazione compiuta, diventerebbero devastanti, determinando,
da un lato, una sperequazione fra i singoli enti locali in termini
di capacità di spesa (le comunità ricche contro quelle povere), e,
dall’altro, una probabile compressione della spesa sociale.
-
In secondo luogo, le
imposte vanno ridefinite, e non solo perché alcune sono
socialmente inaccettabili, ma anche perché così come sono concepite
vanificano in parte il rispetto di quel criterio di progressività
che prima richiamavo. E’ il caso dell’addizionale IRPEF, che rischia
di costituire un’aggravio certo solo per le fasce sociali più
deboli e per la quale si dovrebbe pensare, quantomeno, a introdurre
la totale esenzione al di sotto di un certo reddito.
Ma la necessità di
intervenire sul piano delle scelte generali non fa venir meno
l’esigenza di fare i conti da subito con le compatibilità di bilancio
locali. Per questo noi riteniamo che sul fronte delle entrate
occorre agire sul recupero dell’evasione fiscale e sull’attivazione di
canali alternativi di finanziamento, mentre sul fronte delle uscite
riteniamo vadano compresse le spese inutili. In ossequio ad una
politica redistributiva e in presenza di forti vincoli di bilancio, va
sostenuta la correttezza di una scelta su sistema impositivo e tariffe
che accentui la pressione sui redditi più alti per compensare la
riduzione su quelli più bassi
DIFESA E
RIQUALIFICAZIONE DEL WELFARE URBANO
Come si è detto, in una
logica redistributiva l’intervento sui servizi è essenziale. Ma è
altrettanto verso che il welfare locale non esplica i suoi benefici
esclusivamente sul piano del reddito, esso rappresenta una condizione
essenziale per rimuovere i fattori di emarginazione, per sottrarre
il cittadino dal ricatto del bisogno, per favorire la ricostruzione di
una coesione sociale Per molti versi, anzi, la disponibilità di
una rete efficiente di servizi costituisce la condizione essenziale
per dare senso al concetto di cittadinanza. Anche su questo terreno,
tuttavia, ci si scontra con gli orientamenti recenti della
legislazione e con le concrete pratiche amministrative. Non è un caso,
ad esempio, che anche nelle trattative in corso con le forze del
centro sinistra, in vista delle prossime elezioni amministrative,
spesso si registrino difficoltà di intesa su questo punto.
Al centro di una battaglia
per la difesa e la riqualificazione del welfare urbano sta la garanzia
della disponibilità di una rete di servizi di buona qualità
adeguatamente estesa, di facile accesso e capaci di intervenire
anche sulle nuove forme di disagio sociale. Questa scelta generale
implica pertanto, in controtendenza con le scelte che si sono compiute
in questi anni, l’assunzione di principi quali: la garanzia
dell’universalità dei diritti, il rifiuto al ripiegamento su
concezioni individualiste o familiste, il rifiuto a concezioni che
perseguono l’obiettivo di un Welfare residuale, il riconoscimento
della centralità dell’intervento pubblico. Si tratta, come è evidenti
di un approccio alternativo a quello dominante.
Il bisogno di servizi sul
territorio è ancora largamente insoddisfatto: non solo in alcune parti
del paese anche servizi elementari come quelli a rete non sono
garantiti, ma spesso la dotazione dei servizi è insufficiente (si
pensi a tutta la partita dell’assistenza, asilo nido) o il loro
accesso è troppo oneroso (si pensi alle strutture per la sanità).
E si consideri inoltre l’assenza, molto spesso, di servizi in grado di
far fronte alle nuove emergenze. Valga per tutto la necessità di
strutture che garantiscano il pieno inserimento nella comunità dei
cittadini extracomunitari, o interventi efficaci per il superamento
del disagio giovanile. Qui, in realtà, la gamma di strutture
necessario tende ad amplificarsi e proprio per questa ragione dovremmo
proporre un’idea di welfare allargato che si costruisca a
partire dalla mappa dei bisogni urbani.
Questo tessuto di
servizi richiede una gestione pubblica.
Una gestione pubblica è, infatti, garanzia di controllabilità sociale
delle prestazioni erogate e della loro efficacia sociale. Per questo
va opposta una forte resistenza alle operazioni di privatizzazione,
tanto per ciò che riguarda i servizi a rete che per quanto riguarda i
servizi sociali. Ciò significa ostacolo alla trasformazione in SPA dei
servizi a rete, a maggior ragione rifiuto ad una loro assegnazione
tramite gare d’appalto, gestione dei servizi sociali tramite modalità
pubbliche (l’istituzione), rifiuto della logica dei bonus e
dell’attribuzione alle famiglie (il che significa: alle donne) di un
ruolo sostitutivo a quello pubblico.
Questa scelta non
configura un’adesione acritica alle modalità di gestione pubblica.
La riforma del welfare è una necessità ma non ci convincono le
tesi di quanti fanno coincidere tale riforma con la privatizzazione.
Questa scelta può comportare effetti socialmente negativi: dalla
riduzione dell’occupazione, all’aumento delle tariffe, alla riduzione
qualitativa e quantitativa dello stesso servizio. Per queste ragioni,
se non si può negare che, nell’arcipelago del terzo settore, vi sono
molte realtà interessanti, tuttavia le tendenze a dismettere servizi
pubblici affidandoli al privato sociale costituiscono scelte
discutibili che non mettono al riparo da rischi evidenti, sia sul
piano della qualità del servizio, sia su quello delle modalità di
utilizzo del personale. La nostra scelta si fonda, invece, sul ruolo
puramente “integrativo” del privato sociale e sulla estensione
dell’integrazione del volontariato nelle strutture pubbliche.
Il vero banco di prova
del servizio pubblico passa attraverso il controllo sulla qualità.
Da questo punto di vista, non c’è dubbio che in molte realtà tale
qualità non sia adeguata. Il punto è che noi riteniamo centrale per la
riqualificazione dei servizi un’intervento di controllo dei
destinatari e cioè degli utenti. E riteniamo che, dovunque sia
possibile, gli stessi utenti debbano essere coinvolti anche nella
gestione. Da questo punto di vista, è evidente che questa invasione
della sfera pubblica da parte dei cittadini implica
modalità di autorganizzazione della società civile affiancate da
processi reali di decentramento delle funzioni istituzionali. Non
solo, questa ridefinizione qualitativa del welfare urbano si intreccia
con l’esigenza di ripensare le forme dell’organizzazione sociale. La
questione della differenza di genere, pur intrecciandosi con
l’insieme delle problematiche urbane, assume a tale proposito una
rilevanza particolare, date le tendenze sempre più marcate
all’affidamento alle famiglie, - e quindi alle donne - di funzioni
sociali che dovrebbero invece essere garantite dal pubblico.
PER UNO SVILUPPO
ECO-COMPATIBILE
Il potenziamento delle
funzioni redistributive e la garanzia di un forte welfare urbano, non
sono sufficienti a garantire un uso perequato della città e
l’effettivo esercizio del diritto al suo godimento. A questo livello,
l’attenzione si deve spostare sul disegno complessivo dello
sviluppo urbano e qui tutto si fa più difficile, in primo luogo,
perché entrano in gioco interessi forti, sistemi di potere
consolidati. In gran parte la partita si gioca intorno alla questione
della pianificazione territoriale e del suo ruolo nel controllo della
crescita urbana. Il punto decisivo e che se è vero che la crescente
complessità della realtà urbana rende più difficile la funzione
pianificatoria non vi sono ragioni, tuttavia, per trasformarla in un
processo negoziale in cui, come è evidente, i singoli contano in
ragione del loro potere economico.
La nostra sollecitazione
alla ridefinizione di una strumentazione urbanistica efficace
nasce proprio da qui, e cioè dalla convinzione che, senza il
contenimento della rendita urbana, la battaglia per la rigenerazione
della città sia persa in partenza. Il punto non è quindi tanto quello
di tener conto delle dinamiche sociali ed economiche in atto, da cui
non si può prescindere, ma se esista o meno da parte dell’operatore
pubblico la volontà/possibilità di piegare gli interessi privati
all’interesse collettivo. Da questo punto di vista si può discutere
sulle innovazioni da introdurre nella strumentazione di piano; il
problema è che, in ogni caso, deve esistere una correlazione fra
obiettivi e strumenti e gli obiettivi non possono essere definiti a
prescindere dall’interesse generale.
Sulla base di questa
premessa, la nostra idea di città muove dall’esigenza di attivare
una forte iniziativa pubblica per recuperare i luoghi socialmente ed
urbanisticamente degradati al fine di ricostruire condizioni di
socialità e restituire valori ambientali. Per questo riteniamo
centrale l’intervento sulle vecchie e le nuove periferie. In questo
contesto consideriamo anche vitale recuperare spazi urbani ad un uso
sociale e qui, davvero, la partita dei vuoti urbani costituisce un
elemento decisivo. Il liberarsi di spazi in precedenza occupate da
attività produttive divenute obsolete o soggette a trasferimento offre
l’opportunità di una rivitalizzazione ambientale e sociale.
In generale, un
significativo intervento pubblico sulla città, oltre ad essere
decisivo ai fini di una sua rigenerazione, può determinare
fenomeni virtuosi sul piano occupazionale, in conformità con una
impostazione neo-keynesiana.
A partire da queste
considerazioni, si prospetta la proposta di un nuovo modello di
sviluppo urbano. Rispetto ai processi in corso che poggiano su una
ridefinizione del ruolo delle città attraverso la valorizzazione delle
funzioni terziarie qualificate, quando non semplicemente sulla
valorizzazione del patrimonio immobiliare, una idea alternativa di
città non può che poggiare sulla sinergia e sulla multipolarità.
Ciò che va messo a valore è l’insieme delle risorse sociali,
ambientali e culturali. [la città delle 20 piazze]
In questa ottica, per
esempio, acquista un ruolo particolare la valorizzazione delle
strutture commerciali esistenti o delle sopravvivenze artigianali,
come parti integranti di un processo di riqualificazione urbana contro
l’idea dei centri commerciali “da vivere”.
La sfida per la
trasformazione delle città in luoghi dell’innovazione va accettata ma
per piegarla alla valorizzazione complessiva delle risorse
scientifiche e culturali disponibili. Ciò significa che uno
sviluppo di eccellenza va inserito in circuiti culturali più
complessivi che attivino l’insieme dell’ intelligenza sociale
Questa è una risorsa utile anche per le città minori come Frosinone,
dove l’attività di tipo culturale rappresenta una risorsa importante
per la rigenerazione urbana. Ma uno sviluppo scientifico di eccellenza
implica lo sviluppo parallelo delle reti di connessione, da quelle
tecnologicamente più sofisticate al sistema dei trasporti.
Infine, tutto ciò deve
poggiarsi sull’assunzione di una priorità e cioè quella della
sostenibilità ambientale come grande discriminante nelle scelte di
sviluppo locale. Da questo punto di vista la rivoluzione post fordista
apre nuove possibilità ma tali possibilità implicano l’assunzione di
un progetto consapevole. I tratti di questo progetto si possono cosi
descrivere: l’intreccio fra città e territorio con la scomparsa della
tradizionale dicotomia città-campagna, la chiusura a livello locale
dei cicli dell’acqua, dei rifiuti, dell’alimentazione per la creazione
di economie integrate su base territoriale, la riduzione della domanda
di mobilità, la rigenerazione delle strutture esistenti e abbandonate,
la valorizzazione del patrimonio paesistico ambientale come risorsa di
sviluppo, l’assunzione del risanamento urbano e la lotta
all’inquinamento come obiettivi strategici.
DEMOCRAZIA,
PARTECIPAZIONE, CONFLITTO
Nella prospettiva di una
città equa, solidale ed ecocompatibile la questione democratica
riveste un’importanza essenziale. Essa è la condizione per
costruire un consenso intorno ad un progetto di città e per
verificarne l’attuazione. Non solo, il pieno sviluppo della democrazia
è la condizione essenziale per riaprire una dialettica di posizioni in
grado di vincere le tendenze all’omologazione culturale, alla delega,
al prevalere di spinte localiste. In poche parole, la costruzione di
un’assetto democratico della società locale consente di ripristinare
quel pluralismo politico che è condizione essenziale per la
ridefinizione di un blocco progressista.
Una riforma democratica
della città passa, in primo luogo, attraverso un diverso
funzionamento degli organi preposti al governo delle stesse città.
Non sono da sottovalutare le devastazioni provocate dall’introduzione
del presidenzialismo nelle istituzioni locali. Il punto ora però è
come si reagisce a questa involuzione. E’ questo un terreno
interessante da praticare nella definizione delle alleanze: un impegno
alla valorizzazione delle assemblee elettive e dei percorsi
democratici. In verità nulla impedisce ad una amministrazione comunale
di far dibattere il consiglio sulle scelte giuntali, nulla impedisce
che si tengano periodicamente bilanci sull’applicazione del programma
amministrativo, nulla impedisce che su alcune tematiche rilevanti si
tengano sessioni apposite del consiglio.
Se un simile indirizzo può
consentire, di restituire, almeno parzialmente, un ruolo al consiglio
comunale, è evidente che una particolare importanza assume
l’attivazione di una partecipazione democratica. Ora, benchè negli
statuti siano elencati gli strumenti di partecipazione e i diritti di
informazione, nondimeno dal punto di vista pratico raramente questi
strumenti sono utilizzati. La questione decisiva è allora quella del
come si promuovono gli strumenti di partecipazione. Ed anche qui molto
si può fare. Si pensi alla questione dell’informazione che costituisce
la base per ogni ragionamento sulla democrazia. E’ possibile
attraverso le nuove opportunità offerte dalle tecnologie consentire al
cittadino un’informazione esauriente sull’attività amministrativa,
sulle scelte compiute e sull’esercizio dei propri diritti?
Ma la scommessa
democratica implica anche l’attivazione di strumenti di
consultazione più frequenti, previsti di regola e non come
eccezione. L’esperienza di Porto Alegre e del bilancio partecipato
fornisce un terreno su cui lavorare. Il coinvolgimento popolare nelle
scelte strategiche di una amministrazione locale - come può essere
appunto il bilancio - costituisce un terreno importante di iniziativa.
Sempre in tema di partecipazione, la questione dei poteri degli organi
di decentramento (laddove sono previsti) diviene essenziale. In questo
caso è centrale conseguire il rafforzamento dei poteri di gestione,
oltre che di quelli consultivi.
In questo percorso
democratico un punto esenziale è rappresentato dalla ricostruzione
della strutture della società civile. Con la fine del partito
comunista e con il depotenziamento di alcune strutture di massa, si è
indebolito non poco quel tessuto associativo che rappresentava un
presidio democratico di eccezionale importanza. Si pensi alle case del
popolo, a tante organizzazioni culturali, ad un’associazionismo laico
e di sinistra. Oggi queste strutture sono state in gran parte
soppiantate da altre modalità aggregative, espressione anche di una
istanza di partecipazione, ma questa molteplicità di iniziative
sociali, ha bisogno di un sostegno e di una piena valorizzazione.
Liberata da logiche clientelari, l’iniziativa pubblica può a tale
riguardo costituire uno strumento essenziale per ricostruire un
insediamento sociale strutturato che si poggi su reti di relazioni
sociali e nuove modalità partecipative.
Infine, la questione della
democrazia allude anche alla questione del conflitto. Certo non è
compito di un’amministrazione locale promuovere il conflitto, il
problema è come lo si governa. E nelle modalità di governo rientra in
primo luogo la propensione ad aprire le istituzioni al conflitto,
riconoscendo i soggetti conflittuali, aprendo relazioni, instaurando
un rapporto di confronto, nel rispetto delle rispettive collocazioni.
Queste esigenza non nasce solo dalla necessità di comportamenti
rispettosi di un pluralismo di idee quanto dal riconoscimento della
stessa parzialità della funzione di governo, non potendo le
istituzioni in sé esaurire l’ambito della rappresentanza.
OLTRE IL MUNICIPIO
Questi
assi non danno risposta alla totalità delle problematiche e la loro
articolazione dovrebbe essere più puntuale. Nell’accostarsi al
problema urbano, si rende evidente la parzialità di un approccio
municipalistico. Man mano che si affrontano le tematiche più rilevanti
e ci si cimenta nel definire obiettivi, più ci si rende conto che
la dimensione urbana è parte di uno scenario più ampio. Lo si può
notare nelle stesse dinamiche urbane dove la dilatazione degli
insediamenti sul territorio rende sempre più rilevante la
programmazione di “area vasta”, ma lo si può constatare anche sulla
base dell’analisi che si è tentato di condurre relativamente a
specifici aspetti della realtà urbana. E’ possibile una politica di
servizi che non sia integrata su ampia scala? E’ possibile affrontare
le emergenze ambientali senza una programmazione di livello almeno
regionale?
Peraltro, a questo nodo
non si sfugge nel momento in cui si vuole definire un progetto per la
città perché è del tutto evidente che se dovesse prevalere la logica
della competizione fra territori ogni ipotesi di crescita equilibrata,
ecocompatibile e socialmente inclusiva tenderebbe a saltare in nome
dell’esigenza di finalizzare le risorse e l’iniziativa pubblica al
perseguimento dell’obiettivo dell’efficienza capitalistica.
Nell’ottica, invece, di uno sviluppo socialmente equilibrato è
essenziale il prevalere di una logica non gerarchica, in cui fra i
poli urbani si stabiliscano relazione di complementarietà e in cui i
processi di sviluppo si fondino sulla valorizzazione delle risorse
locali in uno sforzo sinergico. Lo sviluppo urbano implica quindi un
disegno programmatorio di larga scala, pena consegnare lo
sviluppo urbano alle dinamiche spontanee del mercato.
Ma una programmazione
generale non può soffocare l’esigenza di autonomia delle comunità.
Come connettere allora queste due esigenze in parte contraddittorie?
La strada fini ad ora perseguita sta rivelando tutte le sue
contraddizioni. Dietro l’enfasi che accompagna il nuovo progetto
federalista si celano contraddizioni vistosissime. Il rafforzamento
delle regioni, così come viene prospettato, non risolve i problemi
dello sviluppo e dell’autonomia delle comunità locali. Infatti, il
rafforzamento di alcune competenze delle regioni e soprattutto la loro
autonomizzazione dalla programmazione nazionale può indebolire
ulteriormente l’autonomia dei comuni che possono finire in balia delle
scelte compiute a livello regionale, senza essere tutelati
adeguatamente da un quadro normativo nazionale. Inoltre, il
decentramento delle funzioni amministrative ai comuni può trovare
ostacoli da parte delle istanze regionali, non sempre disponibili ad
alienare le competenze di cui dispongono.
Nel complesso, quindi, la
prospettiva di valorizzazione delle città, di una loro rigenerazione
sociale, non passa né attraverso il ritorno al municipalismo, come
recupero (improbabile) di una dimensione locale sottratta ai processi
di globalizzazione, né attraverso l’assunzione del paradigma
federalistico, con le sue declinazioni neo regionaliste. Alla fin
fine, probabilmente, la miglior garanzia per la valorizzazione
delle risorse locali sta in un disegno istituzionale complesso in cui
l’autonomia, intesa come dilatazione delle forme di autogoverno, si
estenda a cascata fino ai comuni, dando vita ad una struttura
nazionale la cui unità si fondi su un solido e condiviso insieme di
diritti, su un sistema finanziario che garantisca solidarietà ed
equità e su una strumentazione di programmazione sociale ed economica
che garantisca lo sviluppo armonico delle istanze locali. |